Le imperfezioni del perfezionista

Più si cerca di esser perfetti e più si rischia di esser imperfetti. Ma che cosa s’ intende per perfezionismo e perché scatta il meccanismo contrario che porta a sbagliare?

Nella letteratura internazionale più recente il perfezionismo ha rivestito un ruolo di rilievo nell’eziologia, nel decorso e nel mantenimento di alcuni stati psicopatologici quali: depressione, disturbi d’ansia (attacchi di panico, fobia sociale, disturbo ossessivo compulsivo – DOC), Disturbo di Personalità Ossessivo-Compulsivo (DPOC) e nei Disturbi dell’Alimentazione (DA). Nei DA, in particolare, esso rappresenterebbe un fattore di rischio per lo sviluppo della patologia conclamata.

Nonostante il numero crescente di pubblicazioni relative a questo costrutto, restano tutt’ora aperti una serie di problemi relativi alla sua definizione e quindi ai metodi di valutazione più idonei, al tipo e all’entità della sua relazione con la psicopatologia e infine le implicazioni terapeutiche di tutto ciò.

L’origine del termine
Le prime definizioni di “perfezionismo” risalgono alla fine degli anni 60. Ritenendolo un costrutto unidimensionale, esse si focalizzavano esclusivamente sugli aspetti autoriferiti (ovvero rilevati dalle persone) ed in particolare sullo stabilire standard non realistici per sé stessi, sull’attenzione selettiva verso il fallimento e sul pensiero dicotomico (successo pieno o totale fallimento) (Hollender, 1965; Hamacheck, 1978; Burns, 1980). Secondo la definizione di Hollander (1978), ad esempio, il perfezionismo sarebbe “la consuetudine di richiedere a sé stessi o agli altri livelli di performance più elevati di quanto non sia necessario in quella specifica situazione”.

Si evidenziava già a quel tempo la possibilità che ci fosse un perfezionismo, per così dire, “normale”, in cui il soggetto stabilisce elevati standard prestazionali, ma è poi soddisfatto una volta che li ha raggiunti, e un perfezionismo “nevrotico”, disfunzionale o negativo, in cui chi ne soffre non riesce mai a fare abbastanza per essere soddisfatto della propria performance (Slade & Owen, 1998). Risultava quindi evidente come l’autostima dei “perfezionisti” dipendesse dal raggiungimento degli obiettivi stabiliti.

A partire dagli anni ’90 si svilupparono delle definizioni multidimensionali di perfezionismo comprendenti non solo gli aspetti autoriferiti, ma anche quelli interpersonali (Frost et al, 1990; Hewitt et al, 1991). Esse derivarono da osservazioni cliniche secondo le quali i soggetti perfezionisti sarebbero eccessivamente preoccupati della possibilità di commettere errori, dubiterebbero della qualità del loro lavoro, attribuirebbero elevato valore alle aspettative dei propri genitori e alla disciplina: in altre parole, gli aspetti interpersonali ed il giudizio degli altri avrebbero un’importanza cruciale nel determinare le difficoltà di adattamento dei perfezionisti.

Secondo questa più recente visione, il mantenimento della psicopatologia del perfezionismo è assicurato da una serie di processi tra cui:

1. Una paura patologica del fallimento, che porta l’individuo a reagire con estrema autocritica a ogni insuccesso percepito e, quindi, a mantenere attivo lo schema negativo di autovalutazione;
2. Lo stabilire standard sotto forma di regole che sono per definizione dicotomiche e, quindi, suscitano senso di colpa e autorecriminazione qualora vengano trasgredite;
3. La necessità di autocontrollo estremo per ottenere gli scopi stabiliti anche a costo di limitare le attività piacevoli;
4. Una modalità pregiudiziale di valutazione non solo del raggiungimento di standard personali elevati, ma anche dello sforzo necessario ad ottenerli;
5. L’attenzione selettiva nei confronti del fallimento che porta ad ipervalutare gli errori e sottovalutare i successi parziali con la comparsa di “comportamenti di controllo”, palesi o nascosti, e di “comportamenti di evitamento”(procrastinazione, interruzione, evitamento completo) necessari ad allontanare la possibilità dell’insuccesso;
6. Il ristabilire gli obiettivi ottenuti con successo perché ritenuti non abbastanza elevati se raggiungibili.
7. La paura del giudizio altrui

Uno sguardo d’insieme sulle caratteristiche dei perfezionisti
Al di là degli studi e delle ricerche fatte, di sicuro i perfezionisti corrono il rischio di percepire uno stress maggiore, perché pensano agli eventuali problemi già nel pianificare le loro azioni. Questo li porterebbe ancora di più a commettere errori perchè, avendo la tendenza a dipingersi mille scenari possibili di come potrebbero mandare a rotoli il loro progetto e sulle conseguenze che questo potrebbe avere,riducono notevolmente la loro capacità di problem solving, l’adozione di uno stile di pensiero più flessibile e sono maggior mente suscettibili agli stressoe e a rischio di burnout.

Come ridurre il perfezionismo
Come convincere un perfezionista a rilassarsi?
Innanzitutto è bene renderlo consapevole di alcune convinzioni rigide e del proprio dialogo interno disfunzionale (come: “se fallisco in parte, è come se fallissi in tutto”, “meno errori commetto, più sarò apprezzato”, “anche se faccio molta attenzione, ho la sensazione che qualcosa andrà storto”) e della modalità di pensiero tutto o nulla, catastrofizzante e generalizzante
Inoltre, dato che ha standard elevati e cerca di risolvere problemi sempre al meglio delle sue capacità, è utile assegnargli un compito importantissimo: scoprire, tra quel che sa fare, le cose che può rilassarlo e che gli consentano di ricaricare le batterie.
Un altro esercizio, comunemente chiamato: “esercizio di mediocrità” è quello di chiedere alla persona perfezionista di mettere volutamente meno sforzo e impegno in un determinato compito per permettergli di osservarne le conseguenze.
E’ importante “allenarsi” a:
· ridurre i propri standard,
· vedere gli errori come normali (ricordiamoci che siamo umani!) e apprendere da essi
· essere meno rigidi, critici e severi con noi stessi (esser compassionevoli)
· ironizzare su di sé (aiuta ad alleggerire la modalità autocritica con cui ci giudichiamo)

Ci vuole un po’ di tempo e pazienza, d’altronde cambiare un modo di essere non è facile! E ricordiamoci che: “La perfezione è sempre a un gradino dalla perfezione” (Alessandro D’Avenia).

Dott.ssa Michela Arru
Psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale

Bibliografia:
• Fairburn CG, Cooper Z, Shafran R. (2003). Cognitive behaviour therapy for eating disorders: a “transdiagnostic” theory and treatment. Behav Res Ther. 41(5):509-28.
• Hewitt PL, Flett GL, Besser A, Sherry SB, McGee B. (2003). Perfectionism is multidimensional: a reply to Shafran, Cooper and Fairburn (2002). Behav Res Ther. 41(10):1221-36.
• Sassaroli S and Ruggiero GM (2005). The role of stress in the association between low self-esteem, perfectionism, and worry and eating disorders. Int J Eat Disord, 37: 135-141.
• Shafran R, Cooper Z, Fairburn CG. (2003). “Clinical perfectionism” is not “multidimensional perfectionism”: a reply to Hewitt, Flett, Besser, Sherry & McGee. Behav Res Ther. 41(10):1217-20.
• Tozzi F et al. (2004). The structure of perfectionism: a twin study. Behavior Genetics, 34 (5): 483-494.

Fonte: Mente e Cervello

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